Con un poco di impegno (in verità il tempo che dedicavo alla scuola si dilatava sempre di più) riuscivo a semplificare gli argomenti di studio, ad adeguare le attività della classe alle capacità di Giuseppe, a trovare o ad inventare materiali e strumenti per rendere interessante ed efficace il lavoro scolastico per tutte le discipline.
Ma l’inglese era tabù. Non conoscevo affatto questa lingua, anzi, nutrivo per essa un vero e proprio rifiuto; lo stesso rifiuto che oppongono spesso gli alunni quando non si sentono capaci di affrontare un compito che ritengono superiore alle loro capacità. Mi sentivo per questo nella stessa identica situazione di Giuseppe. Ma proprio per Giuseppe ho cercato di superare questa avversione e ho cominciato a costruire delle schede operative, con semplici parole e frasi di uso quotidiano, scegliendo e mettendo insieme in ordine progressivo tutti quegli esercizi che, come avevo notato, per motivi vari, piacciono ai ragazzi.
Ho sperimentato, infatti, che è certamente utile e importante fare leva sui loro interessi, tenere conto dei loro gusti e che per questo bisogna avere sempre un atteggiamento di ascolto e di massima attenzione per cogliere tutti i segnali che ci mandano.
Per realizzare il materiale mi sono basata sulla mia esperienza didattica, ma anche sulle difficoltà che io stessa incontravo.
– Professoressa, perché non fa il recupero a tutti gli alunni della scuola che non riescono a seguire il programma curriculare e in classe recano solo disturbo?- mi propone la preside appena vede le prime schede.
– Preside, non conosco l’inglese! – le ricordo – Sto solo facendo una prova… non posso garantirle niente…
– Professoressa, – ribatte la dirigente – finora non hanno fatto niente, hanno solo creato problemi; se riescono ad imparare qualcosa è tutto di guadagnato.
– Se mi chiede di aiutare i ragazzi che hanno problemi… non posso tirarmi indietro…- rispondo più confusa che persuasa.
Credo che nella decisione di buttarsi in una avventura, a dir poco, insolita per quei tempi (anticipatrice alla luce della nuova riforma) abbia giocato la disperazione della preside Nazarena Di Pietro piuttosto che la sua fiducia nei miei confronti. Ma sia la mia che la sua follia sono state ben ripagate.
Due ore di recupero di inglese alla settimana per tutti gli alunni che solitamente disturbavano le lezioni. E ce n’erano tanti in quella scuola che era frequentata in massima parte da ragazzini istituzionalizzati.
Avendo sperimentato prima degli altri il percorso che proponevo, Giuseppe era diventato il “maestro”! Era, infatti, in grado di dare indicazioni e di aiutare i compagni.
Non ci vuole la laurea per insegnare certe cose.
Tutti, secondo le situazioni eravamo alunni e maestri; tutti facevamo a gara per imparare e per aiutare gli altri; per imparare a volare più in alto e per poter insegnare agli altri a volare più in alto. Proprio come il Gabbiano Jonathan.
“Imparare ad apprendere” assieme agli alunni, è stata una delle esperienze più arricchenti, più divertenti, più entusiasmanti e più stimolanti della mia vita.
Era una gioia grande e una emozione particolare per tutti scoprire di poter imparare parole e frasi in inglese; parole e frasi che pensavamo di non essere capaci di apprendere.
Per la pronuncia ci aiutavano gli insegnanti di lingua.
L’unico problema era quello di convincere i ragazzi a tornare nelle rispettive classi, terminata l’ora di recupero. Dovevo minacciare l’intervento della preside: rifiutavano persino di andare in palestra a fare Educazione Fisica!!!
Da questa esperienza è venuta fuori l’idea del corso di inglese Play and learn, un libro che risponde al principio elementare di favorire l’apprendimento stimolando la memoria visiva, attraverso le immagini, e facendo ripetere tante volte le stesse parole e le stesse frasi, in maniera varia e piacevole e secondo un ordine progressivo di difficoltà.
All’inizio di ogni unità c’è un vocabolario illustrato, con una pronuncia semplificata che è di grande aiuto agli alunni e ai docenti di sostegno che, come me, non conoscono l’inglese .
Come diceva Don Milani, le lingue servono innanzitutto per comunicare; meglio conoscerne tante, anche se non proprio bene, anziché non conoscerle affatto.