Lavorare nel Sostegno era l’ultima cosa che pensavo di fare nella mia vita; anzi neanche l’ultima: non ci pensavo proprio per niente. Avevo già difficoltà a relazionarmi a livello umano con persone diversamente abili straordinarie, capaci persino di autoironia, persone che mi lasciavano senza parole; figuriamoci se mi sentivo di confrontarmi con i bambini e con i ragazzi in una attività educativa e didattica! Mi sembrava, ed è, un compito così difficile, così delicato e così impegnativo per cui non mi sentivo, né mai mi sento tuttora all’altezza.
Della mia avventura nel Sostegno sono, comunque, particolarmente grata alla mia amica, professoressa Cettina Sirna, alle cui pressanti insistenze ho ceduto ma, confesso, senza nessuna convinzione e solo perché l’insegnamento nel Sostegno mi consentiva di lavorare più vicino alla mia sede di residenza. Per questo, dopo avere fatto l’esperienza di ore di viaggio per recarmi a scuola, avevo già rinunciato all’insegnamento di Storia e Filosofia ed ero passata a quello di Materie Letterarie nella scuola media.
Nel Sostegno sono poi rimasta per scelta forse perché, grazie alla collaborazione dei colleghi, ho avuto la fortuna di fare esperienze positive.
Ho maturato questa decisione quasi subito, precisamente durante il secondo anno di lavoro nel Sostegno, quando, seguendo un alunno con sindrome di down, mi sono resa conto che, con i metodi giusti e con i mezzi appropriati, tutti i bambini, anche quelli in difficoltà, possono raggiungere risultati impensabili.
Mario a quindici anni ancora non aveva idea di cosa fosse il denaro e si rifiutava non solo di toccarlo ma persino di parlarne, per avere precedentemente sperimentato la frustrazione dell’insuccesso. Per questo, motivarlo è stato ancora più difficile e impegnativo. Sono riuscita a sbloccarlo, dopo innumerevoli tentativi fallimentari, facendo leva sull’affettività e alla fine dell’anno Mario era già in grado di fare da solo piccoli acquisti personali.
Anche se ero ancora alle prime armi avevo voluto scommettere sulle sue possibilità e per questo ho lavorato e mi sono adoperata senza badare a tempo, spese e fatica; ma niente avrebbe potuto ripagarmi di più del “Grazie” e dell’abbraccio di Mario, alla fine del corso, e delle parole della mamma (tra l’altro una collega): “Credevo che mio figlio non avrebbe mai potuto imparare certe cose”.
La scelta di continuare lungo la strada intrapresa à stata inevitabile e Mario è stato il mio primo, vero maestro. Con la sua voglia di imparare, mi ha insegnato ad ascoltare, ad osservare, a valutare ogni elemento, a pensare e a ripensare a come spezzettare all’infinito i compiti, a come graduare le difficoltà, a studiare i modi e i mezzi per far diventare piacevoli quegli esercizi ripetitivi, tanto necessari per raggiungere in tempi, il più possibile brevi, gli obiettivi programmati. Poi, all’improvviso… il salto, la conquista!
E oggi, quasi alla vigilia della fine di questo percorso, mi sento più alunna di quando ero alunna.
Ogni giorno quando esco dalla scuola e torno a casa, mi trovo sempre con dei compiti da svolgere, compiti più complessi e più difficili di quelli che dovevo svolgere quando sedevo sui banchi. Allora, i miei vecchi professori mi dicevano esattamente quello che volevano sapere da me e mi dicevano pure dove, in quali libri e in quali pagine potevo trovare le risposte alle domande che mi avrebbero fatto. Oggi, le richieste dei miei “giovani maestri” non sempre sono chiare , esplicite; a volte provo a indovinarle, a volte devo inventare le risposte, spesso mi trovo a scommettere, a rischiare.
E’ un percorso, questo, sempre impegnativo, lungo il quale le fatiche di ieri sono solo il supporto delle fatiche di oggi; è un percorso che mi costringe ogni giorno a mettermi in discussione, a rivedere e a modificare i miei comportamenti, a ricercare nuove strategie e nuovi strumenti, a non dare mai niente per scontato e per definitivo; e mi obbliga a interagire con tutti gli alunni, i colleghi, gli operatori scolastici a tutti i livelli, a cercare e ricercare la collaborazione e la cooperazione di tutti per trovare risposte e soluzioni ai problemi sempre nuovi, sempre diversi e sempre più complessi, che quotidianamente si presentano.
Ma, proprio per questo, ho avuto l’opportunità di comprendere e di apprezzare il valore della collaborazione: ho visto (per fortuna solo raramente) ali, a fatica dispiegate, tarpate da una parola e persino da uno sguardo, per meschine ripicche e per piccoli interessi personali; ma ho avuto soprattutto il piacere di vedere i “miracoli” che può fare la collaborazione se, utilizzando l’espressione della preside Cavaleri e di altri dirigenti e colleghi, miracoli vogliamo chiamare la conquista della fiducia di un bambino, l’entusiasmo di un alunno che odiava la scuola, la gioia e l’esultanza di un ragazzo che prende a calci e pugni le pareti dell’aula, anziché i compagni come faceva abitualmente, quando scopre, in terza media, che ha imparato a leggere e a scrivere e che è in grado di farsi i conti.