Entrare in una classe e trovare gli alunni ai loro posti o che, appena arriva l’insegnante, vanno a sedersi e salutano è già confortante e rassicurante.
Insegnare, poi, a bambini che hanno voglia di apprendere, a ragazzi che hanno dietro una famiglia serena, dei genitori che si prendono cura di loro, che si interessano dei loro problemi scolastici, che si occupano e si preoccupano della loro istruzione e della loro formazione, insegnare a questi alunni è un compito per il quale siamo preparati, un impegno adeguato alle competenze che abbiamo acquisito nel corso dei nostri studi; è quindi un compito in genere relativamente facile e sicuramente gratificante.
Difficile è, invece, insegnare agli alunni “difficili”. Per alunni difficili intendo tutti quei bambini che, per motivi vari, rifiutano di svolgere le normali attività scolastiche e che non riusciamo a coinvolgere e a motivare con i metodi, le strategie e i mezzi che conosciamo e che utilizziamo di solito e che fanno parte del nostro bagaglio di formazione e di esperienza (per chi ce l’ha).
All’interno della categoria degli alunni difficili, c’è poi da fare una distinzione perché ci sono quelli che, anche se non dimostrano nessun interesse per le proposte dei docenti e “sembra” non abbiano nessuna voglia di apprendere, se ne stanno “buoni” e “tranquilli” nei loro banchi e non danno nessun fastidio.
Timidi, introversi, apatici, abulici… li definiamo e, in genere, sono tutti coloro che non hanno fiducia in sé stessi, ma neppure nell’adulto, e nella società, per cui si chiudono, si isolano e non provano neppure a chiedere aiuto, a provocarci in qualche modo. Non hanno già la voglia o la forza di reagire.
In realtà questi alunni sono “i più difficili” ma, siccome non ci creano problemi urgenti e imminenti, più difficili vengono ritenuti quelli che, invece, manifestano il loro disagio e cercano di richiamare la nostra attenzione con comportamenti “disturbanti” e “irriguardosi”.
I più difficili sono, quindi, per noi docenti quelli che ci rendono la vita difficile, “obbligandoci” ad occuparci di loro in maniera particolare, “obbligandoci” a cercare, a ricercare e a trovare risposte ai loro problemi e ai loro bisogni.
Demotivati, litigiosi, aggressivi, violenti, prepotenti, bulli. Provengono, in genere, da ambienti poveri e degradati, possiedono un bagaglio culturale povero, parlano generalmente in dialetto, trovano difficoltà ad integrarsi in classe, accumulano esperienze di insuccesso scolastico e di frustrazioni, rifiutano qualsiasi proposta educativa e didattica di tipo tradizionale.
Impossibile (o quasi) è, infine, insegnare nelle classi difficili, quelle formate cioè esclusivamente da alunni difficili. Sono le classi ghetto o, se vogliamo, le “nuove classi differenziali” che a volte siamo costretti a formare per motivi vari (ubicazione degli Istituti, genitori che si occupano e si preoccupano per i propri figli e che pretendono che vengano inseriti in alcune classi piuttosto che in altre, logiche della moderna scuola-azienda…).
Queste classi le troviamo, principalmente, nelle zone più svantaggiate e più deprivate sia economicamente che culturalmente. E qualsiasi docente, se può, evita di entrare in queste classi, rifiuta di lavorare in ambienti dove, almeno all’inizio, si ha la sensazione che tutto quello che si è studiato si possa mettere da parte perché non serve a nulla. Ci vuole coraggio per rimanere.
Per un problema di sopravvivenza, come tanti altri colleghi, ho provato anche io ad imparare a fare la domatrice, ad opporre aggressività all’aggressività, non sapendo fare diversamente. Mi è accaduto nel passaggio dal liceo alla scuola media, passaggio che è stato per me traumatico: neanche con la fantasia più spinta avrei potuto immaginare la realtà che ho trovato in una prima media, dove undici ragazzini mi hanno gettata in una crisi profonda.
Al liceo, gestire classi abbastanza vivaci, formate anche da trentatré alunni, non era stato un problema; quegli undici ragazzini, invece, non mi facevano dormire la notte. Non ho pianto per dignità, ma ho conosciuto la disperazione.
Di demotivazione, di disadattamento, di alunni difficili, avevo sentito parlare e avevo letto qualcosa per interesse personale, ma immaginavo questi alunni distribuiti in classi “normali” e quindi più facilmente gestibili.
Decisamente non ero preparata per affrontare situazioni in cui, mentre cercavo di capire le ragioni di una violenta e pericolosa aggressione fisica, di mediare in un conflitto tra due alunni, gli altri nove coglievano l’occasione per dare libero sfogo alle loro tensioni, alle loro ansie, alle loro insicurezze e alle loro paure. Non riuscivo a trovare il modo per relazionarmi in maniera positiva con tutti contemporaneamente; e non mi sentivo gratificata né mi ritenevo “brava” quando, successivamente, ho imparato ad impormi e riuscivo a “tenere le classi”. Mi sentivo terribilmente incapace e profondamente frustrata, credevo di non essere adatta a fare l’insegnante e, perciò, ho valutato seriamente la possibilità di “abbandonare” la scuola e di cambiare lavoro.
Non solo agli alunni, anche a noi docenti, in certe condizioni, capita di volere abbandonare la scuola. E non mi meraviglio per niente e non esprimo giudizi negativi, anzi ho la massima comprensione e mi sento solidale con quella collega che, come mi raccontava una bidella, quando doveva entrare in una determinata classe, le chiedeva di sostituirla per un attimo per andare in bagno e poi dal bagno non usciva più.
Tutti siamo tentati di abbandonare un impegno quando lo sentiamo gravoso, pesante, difficile.